Introduzione

Una terra ancora in gran parte sconosciuta
“L’emozione, ordinariamente considerata come
un disordine senza legge, possiede un significato
proprio, e non può essere colta in se
stessa senza la comprensione di questo significato.”

J.-P. Sartre, Idee per una teoria delle emozioni – (1939)

Perché un libro sulle emozioni? Perché le emozioni, oggi particolarmente valorizzate in ogni ambito, e non di rado elogiate in modo incondizionato, mentre un tempo erano guardate con sospetto per i rischi e i pericoli che comportavano, abitano una terra ancora in gran parte sconosciuta, non perché le numerose ricerche condotte negli ultimi decenni non si siano rivelate abbastanza approfondite, ma perché le emozioni hanno la loro radice nella parte più antica del nostro cervello e i loro effetti nelle parti considerate più nobili della nostra psiche, del nostro sentimento, dei nostri vissuti, delle nostre relazioni sociali e persino delle nostre strutture mentali, che la cultura di un tempo aveva deputato al controllo, quando non alla repressione, delle emozioni.

Per esplorare questa terra ancora abbastanza sconosciuta – e che è tale, lo ripetiamo, non per carenza di studi approfonditi, ma per la natura stessa del mondo emozionale che coinvolge gli scenari all’apparenza più lontani, che vanno dalla neurobiologia alla psicologia, dalla pedagogia alla sociologia, fino alla costruzione del pensiero logico-razionale, che a sua volta assume forme diverse a seconda delle culture in cui si esprime – ci è parso opportuno, oltre che corretto, segnalare innanzitutto da quali modelli teorici si prendono le mosse per la descrizione e la trattazione del mondo emozionale.

Non basta infatti dire: parlo in qualità di neurologo, di psicologo, di sociologo, di neuroscienziato, di informatico, di operatore di mercato, perché tutte queste discipline, a prescindere dal fatto che se ne abbia o meno consapevolezza, affondano le loro radici in una determinata concezione filosofica. Se essa non viene messa in luce ed evidenziata, non è possibile, restando chiusi nel proprio ambito disciplinare, giustificare tutto ciò che si dice e si scrive sulle emozioni, perché non si è consapevoli della radice da cui si genera la narrazione di tutte queste discipline.

La prima radice – illustrata nella Prima parte – è stata inaugurata oltre duemila anni fa da Platone, ed è ancora oggi viva e vegeta. Essa concepisce l’uomo composto da anima e corpo e, partendo da questo punto di vista, guarda le emozioni attribuendole al corpo, ora in conflitto ora in accordo con l’anima. Questo modello lo ritroviamo anche alla base dello sguardo scientifico, che con il termine “corpo” intende propriamente l’“organismo” e con la parola “anima”, che oggi appare troppo carica di vissuti religiosi, intende la “mente”.

In contrapposizione a questo modello inaugurato da Platone, ripreso e reso ancor più rigoroso da Cartesio e portato al suo apice dall’odierna mentalità scientifica, ha fatto la sua comparsa, nella prima metà del secolo scorso, un secondo modello – illustrato nella Seconda parte –, che chiamiamo fenomenologico, perché descrive i fenomeni come si vedono e non come si presentano alle ipotesi formulate dalla scienza. Questo modello, nato in ambito filosofico, concepisce l’uomo come “corpo” (da non confondere con l’organismo) in relazione non all’anima, ma al “mondo” che lo sollecita, lo stimola, lo impegna. La differenza tra i due modelli è simile alle diverse emozioni che si provano quando si guarda un paesaggio su una carta geografica (modello platonico) rispetto a quelle che possono essere suscitate dallo stesso paesaggio visto dal vivo (modello fenomenologico).

All’illustrazione di questi due modelli segue una Terza parte che descrive come si vivono le emozioni nel nostro tempo, caratterizzato dalla progressiva espansione della razionalità tecnica, la quale determina un’ambivalenza emotiva che prevede, da un lato, la rimozione delle emozioni come richiesto da tale razionalità e, dall’altro, una reazione contro questa razionalità, che si esprime con una ritirata emotiva nel proprio sentimento assunto come unica legge di vita.

A ciò si aggiungono l’esibizione pubblica dei propri vissuti emotivi per acquistare visibilità e notorietà, dove la spudoratezza viene spesso scambiata per sincerità, e la mercificazione delle emozioni che, oltre a essere messe a loro volta sul mercato come qualsiasi merce, sono usate per orientare le scelte dei prodotti pubblicizzati non su base razionale ma su base emotiva. A questa utilizzazione non sfugge neanche la politica nella sua versione populista, per non parlare del modello, oggi sempre più diffuso, di felicità, identificata con la salute emotiva e con la capacità di uscir fuori da ogni forma di sofferenza, per la qual cosa è stata coniata una nuova e inutile parola: “resilienza”.

Per effetto di questa sottile falsificazione ci viene fatto credere che vivere le proprie emozioni sia l’unico vero spazio in cui poter esprimere la nostra autenticità, salvo poi accorgerci che questo spazio già da tempo non è più nostro, perché già da tempo ci è stato sottratto per essere codificato dalle esigenze della visibilità, del successo e del mercato.

La Quarta parte invita a sorvegliare il futuro dei nativi digitali che ancora non hanno capito che la rete non è un “mezzo” a loro disposizione che possono usare a loro piacimento, ma è un “mondo” (che appartiene a una categoria diversa da “mezzo”) in cui sono immersi. Un mondo che li codifica a loro insaputa, modificando il loro modo di pensare e di sentire, con effetti di “de-realizzazione”, per cui non sempre è facile distinguere la distanza che esiste tra reale e virtuale, dal momento che la piazza che i nativi digitali frequentano non è quella reale, ma quella virtuale dei social, e con effetti di “de-socializzazione”, dovuta a quella solitudine di massa tipica di chi vive, opera e comunica unicamente con i canali della rete, perdendo, in una società che si fa sempre più complessa, quella necessaria competenza sociale che non si scarica da un sito web.

La Quinta parte, infine, è dedicata agli effetti che la digitalizzazione della scuola ha sull’educazione delle emozioni e dei sentimenti dei nostri ragazzi, prendendo le mosse da quella trasformazione antropologica che, con l’avvento dell’informatica, ha determinato la progressiva prevalenza dell’homo videns sull’homo sapiens.

La scuola, che si limita a “istruire” perché, per ragioni oggettive e per ragioni soggettive, non è in grado di “educare”, non tiene conto di questa trasformazione e, oltre a essere incapace di discernere la diversità e la specificità dell’intelligenza propria di ogni singolo studente, ancora non ha capito che, senza un’adeguata educazione delle emozioni e dei sentimenti, anche l’intelligenza non si apre.

Parlo di quell’educazione capace di percorrere il tragitto che, dalle “pulsioni” che tutti noi abbiamo per natura, conduce alle “emozioni”, che consentono ai nostri ragazzi di acquisire quella “risonanza emotiva” che permette loro di “sentire” immediatamente, prima ancora di riflettere, la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è grave e ciò che grave non è. Questo tragitto educativo si conclude con il passaggio dalle emozioni ai “sentimenti”, che non sono un fatto naturale, ma culturale. I sentimenti si imparano.

E quale miglior repertorio di sentimenti esiste se non la letteratura, dove si apprende cosa sono la gioia, la tristezza, l’entusiasmo, la noia, la tragedia, la speranza, l’illusione, la malinconia, l’esaltazione? Educati dalle pagine letterarie, i nostri ragazzi possono disporre di mappe mentali che, in presenza del dolore, ad esempio, sono in grado di indicare, se non le vie d’uscita, almeno le modalità per reggerlo. E questo perché, fino ai diciotto anni, tutte le scuole – dagli istituti tecnici ai licei classici e scientifici – sono scuole di formazione. Si tratta di formare l’uomo. Le competenze si acquisiscono dopo. Perché non è un uomo colui che è competente senza avere alle spalle una formazione che gli consenta di svolgere con retto giudizio e adeguata comprensione la professione che in seguito sceglierà.

Perché questo tragitto educativo possa compiersi sono necessarie due condizioni:

1) una oggettiva, che prevede che le nostre scuole siano composte da classi con dodici o al massimo quindici studenti, altrimenti è impossibile individuare le differenti intelligenze che caratterizzano ciascuno studente e tanto meno i differenti percorsi emotivi che le condizionano;

2) una soggettiva, che prevede insegnanti che, oltre a un’adeguata preparazione di psicologia dell’età evolutiva, visto che hanno a che fare con ragazzi in quell’età incerta che si chiama adolescenza, dispongano anche di quella virtù che si chiama “empatia”, che non si impara, perché la si possiede per natura. E chi non la possiede, per il suo bene e per quello degli alunni, non deve insegnare, onde evitare quella distanza, che spesso si riscontra, fra le domande segrete che gli studenti comprimono nel loro cuore e la risposta che la scuola dà ai percorsi a rischio di troppi ragazzi.