La scienza applicata alla salute si chiama “medicina”. Il suo scopo, come dice Ippocrate, è quello di “evitare i mali evitabili”. Il suo modo di procedere, come ci ricorda Aristotele figlio di un medico, è quello di “aiutare la natura a risanarsi. Non è infatti il farmaco a guarire, ma la natura coadiuvata dal farmaco”. Questo non ci deve far dimenticare che è propria della natura umana la “mortalità” che i greci avevano ben presente, mentre i cristiani, sedotti dalla fede nella vita eterna, meno. Ciò ha determinato una sorta di “superstizione scientifica”, come la chiama Jaspers, che investe la figura del medico di quell’alone di sacralità di cui, nel tempo antico, erano circondati i sacerdoti. Questa contaminazione tra scienza medica e fede religiosa è antica e ben radicata nel vissuto degli uomini. Dai fondatori di religioni che acquisivano seguito per le guarigioni miracolose che operavano ai processi di santificazione che esigono come prove le guarigioni fisiche, è una sequenza ininterrotta dove la categoria religiosa della “salvezza” si contamina con quella medica della “salute”. Questo stretto rapporto trova un’ulteriore conferma nella visione che la religione e la scienza hanno del tempo. Per la religione, infatti, il passato, contrassegnato dal peccato originale, è male, il presente è redenzione e riscatto, il futuro è salvezza. Allo stesso modo per la scienza il passato è male da imputare all’ignoranza, il presente è riscatto reso possibile dalla ricerca, il futuro è speranza dischiusa dal progresso scientifico. Oggi questa antica alleanza tra scienza medica e fede religiosa è entrata in profondissima crisi, dovuta al fatto che tra scienza e religione si è inserito quell’ospite inquietante che è la tecnica, la quale rende possibile quello che per natura è impossibile. Basti pensare alla fecondazione artificiale, al congelamento degli embrioni, al trapianto degli organi, al cambiamento di genere, alle cellule staminali in grado di ricreare tessuti, alle pratiche di rianimazione, all’accanimento terapeutico, per non parlare della genetica, capace di predire con buona approssimazione l’insorgenza ineluttabile di malattie, fino a quel limite che sottrae agli uomini l’imprevedibilità della loro morte. A regolare il procedimento tecnico-scientifico è il principio che “si deve fare tutto ciò che si può fare” in base alle conoscenze acquisite, a cui la religione contrappone il principio etico del limite che ha nell’ordine della natura il suo riferimento. Come uscirne? Una strada c’è, percorrendo la quale incontriamo due segnalazioni. La prima ci dice che la natura non è “buona”, ma semplicemente “indifferente” alla sorte umana. Non si spiegherebbero diversamente epidemie, pestilenze, inondazioni, siccità, fame, malattie, per porre rimedio alle quali è nata la scienza. La seconda ci dice che non possiamo utilizzare un’etica i cui principi scaturiscono da una concezione della natura come ordine immutabile, quando oggi la natura è in ogni suo aspetto manipolabile. Per il mutamento del contesto un’etica sì fatta non è più proponibile, dal momento che non si può impedire alla scienza che può di non fare ciò che può. Il problema allora diventa quello della “misura” che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quella indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità “phronesis”, che siamo soliti tradurre con “saggezza”, “prudenza”, e la eleva a principio regolativo della prassi non solo medica, perché le decisioni e i comportamenti sono in continua evoluzione, e questo a maggior ragione in presenza dell’accadimento scientifico. Non resta allora che affidarci al buon uso della ragione, perché questa è la condizione umana da conciliare con l’altra nostra imprescindibile esigenza che è il bisogno di conoscenza.
Carissimo Prof. Galimberti,
In questo Suo articolo mi sembra un po’ piu’ ottimista che in altri interventi a riguardo la capacita’ dell’uomo a gestire l’epoca della tecnica. Concordo con Lei sulla necessita’ di darci un limite alla nostra attivita’. L’uomo non puo’ piu’ porsi al centro di tutto ma essere in armonia e in ascolto con la natura che ci circonda. E’ anche necessario rimanere radicati nella terra e sentirsi un tutto con essa. Se continuiamo a buttare immondizia sul nostro letto finiremo per esserne sommersi. Riusciremo a cambiare modo di pensare, fermarci e decrescere, utilizzare la tecnica per ripulire l’ambiente per poi viverci in armonia? Possibile ma molto improbabile. Piu’ verosimile e’ che questo treno impazzito vada a schiantarsi con tutti noi dentro. Spero almeno che qualcuno, dopo aver perso memoria di tutto, si salvi per riprendere il cammino verso un’altra direzione salvo che ci sia ancora un pezzetto di terra disponibile.
Salve professore, volevo farvi la seguente domanda riguardo ad una vostra affermazione sul cristianesimo e il mondo occidentale. Voi avete detto che tutto il mondo occidentale è cristiano nel senso che, anche chi è non cristiano (atei, che siano scienziati, mercanti etc), vivono in una prospettiva di attuale sofferenza e futuro miglioramento, in parallelo al futuro paradiso cristiano, Quindi lo sciziato fa ricerca per creare un mondo migliore con le nuove tecnologie, il comunista spera in un mondo amministrato bene nel futuro etc… Ora vi chiedo: come si posizionano in questa ottica le filosofie orientali (cinese, giapponese, indiane etc…)? Fanno parte di questo schema o ne sono al di fuori? Hanno punti in comune oppure sono completamente slegati dalla prospettiva della ricompensa? Grazie per l’attenzione professore, spero in una vostra risposta. Cordiali saluti
La tipica saggezza degli Antichi, la misura da conservarsi per non cadere nel tragico errore, è un uguale risultato sempre risorgente di ogni perenne filosofia, cioè ogni filosofia che si rapporti alla questione dei limiti e dei rischi approda a un risultato medesimo, sia pure non lo stesso, come ogni alba è un’alba ma non è la stessa dei giorni prima. Ma a ricooscersi sarebbero sia i limiti umani che quelli non umani.
Per quanto attualmente la tecnica abbia raggiunto poteri prodigiosi, resta il fatto che il ghiaccio conserva i semi intatti senza alcun intervento artificiale e che nella stessa semplice natura i semi sono trasportati. A chi volesse ritenere la cosiddetta “eterologa” una novità, va ricordato che esistono i rapporti sessuali tra più di due persone, con il maschio che dona il seme che non è lo stesso che dispone la donna ad accoglierlo, esistono anche i rapporti intimi femminili con l’ovulo fecondato che passa da un utero ad un altro. In natura la riformazione dei tessuti favorita da altro materiale biologico è nota a tutti quelli che usano la salsedine per accelerare la guarigione delle ferite. Un discorso assai importante riguarda il ruolo ed il valore della ricerca genetica. I rapporti tra i codici genetici e gli ambienti non sono chiarificabili a causa della infinitudine di entrambi. La biologia non è una fisica, dunque non si accontenta di una prassi e di una teoria dipendente; tuttavia la genetica è solo un metodo di ricerca biologica, non una scienza a se stante. Cosa sono i geni per il vero scienziato? Sono un retaggio fisico, analogalmente gli archetipi, una volta detti spesso anche “dominanti”, sono retaggi mentali a detta dello psicologo. La connessione tra il destino della vita e la fatalità della morte è insita nell’azione della vita, nel presente, determinato dall’arbitrio più che dalle ereditarietà o dall’ambiente più che dall’arbitrio. Perciò nessuna previsione è veramente prodotta dalla ricerca genetica, ancor meno dalla medicina, che non è altro che tecnica o metodo con eventuali riferimenti scientifici o filosofici o altri diversi, ma in ogni caso una prassi possibile solo se si accetta che a guidarla sia il paziente stesso. Tra reticenze e coincidenze, cause confuse le une con le altre, tra furberie di ignoranti e crimini contro l’autodeterminazione altrui, si consuma il rito omertoso della falsa previsione medico-scientifica, una versione ancor più degenerata del fatalismo tipico dei movimenti nazisti. Non c’è dubbio, per il saggio, su questo: chi volesse morire morirebbe sùbito, interrompendo il respiro o in altra maniera, ciò in qualunque condizione, dunque la difficoltà che si ha nel procurarsi la morte dipende da quanto poco si ama la vita e dalle difficoltà esterne che impedirebbero l’azione, le strategie dei tecnici non aggiungono nulla alle cose della natura in questi riguardi.
La fede aggiunge al Dio indifferente creduto dagli epicurei una sapienza in più: la impassibilità è la forza della divinità, la natura non manifesta alcuna indifferenza per la vita, anzi le sue ferree leggi aiutano a prevederne i rischi. Epicuro non era teologo, dato che si riferiva al Dio, non a Dio né a un Dio, si riferiva cioè all’unità del divino senza scrutarne i misteri. Le religioni, non solo monoteiste, si riferiscono alla negatività cosmica per offrire una base etica che non è l’etica stessa ma la condizione del suo compimento. Il Cristianesimo ha i racconti delle cadute di Lucifero e Adamo, la storia di un mondo divenuto diaframma tra Dio e il creato da prima che ne era tramite e la storia di una umanità che si era perduta in tal mondo e poi si illuse. Nel Giudaismo la prima storia non è svluppata, perché la sua fede ha scopi diversi, di conoscenza più che di salvezza. Nell’Islam è più importante la condizione presente dei rapporti con Dio, dato che esso non ha per scopo la salvezza che viene da Dio. Quest’ultima risulta distinta dalla redenzione, dunque il riferimento religioso alla salvezza divina è propedeutico per le salvezze mondane, se è vero (ed è vero) che la religione aiuta a vivere meglio.
È quasi un paradosso: la sopravvalutazione della potenza delle tecniche contemporanee, unita all’abbandono dei Misteri, non accresce la sapienza mondana, anzi offusca il senso semplice delle cose, allontana dal buon senso naturale, spontaneo. A queste condizioni l’appello alla misura diventa irrealizzabile, vuoto, troppo astratto. Aristotele indicava la misura perchè aveva il metro e la saggezza per usarlo.
Mauro Pastore
Segnalo due lettere mancate in due parole nel mio testo qui sopra: prima del primo punto e a capo ‘ricooscersi’ che stava per: riconoscersi; prima del penultimo punto e a capo ‘svluppata’ che stava per: sviluppata. Mi scuso per l’eventuale disagio.
Mauro Pastore
Tutti i suoi interventi, Sig. Pastore, sono preziosi, questo in particolare, a mio avviso.
In modo oltremodo elegante ed onesto ha evidenziato un punto importante, troppo toccante per non riprenderlo, in particolare : “Tra reticenze e coincidenze, cause confuse le une con le altre, tra furberie di ignoranti e crimini contro l’autodeterminazione altrui, si consuma il rito omertoso della falsa previsione medico-scientifica, una versione ancor più degenerata del fatalismo tipico dei movimenti nazisti. Non c’è dubbio, per il saggio, su questo: chi volesse morire morirebbe sùbito, interrompendo il respiro o in altra maniera, ciò in qualunque condizione, dunque la difficoltà che si ha nel procurarsi la morte dipende da quanto poco si ama la vita e dalle difficoltà esterne che impedirebbero l’azione, le strategie dei tecnici non aggiungono nulla alle cose della natura in questi riguardi.
La fede aggiunge al Dio indifferente creduto dagli epicurei una sapienza in più: la impassibilità è la forza della divinità, la natura non manifesta alcuna indifferenza per la vita, anzi le sue ferree leggi aiutano a prevederne i rischi”.
Come ho espresso in precedenza ho un dubbio fondamentale rispetto all’indifferenza della natura per la vita, utile per me la possibilità di riflettere sulle informazioni offerte – riflettendo su punti da lei evidenziati in precedenza – concordo “sull’insufficienza della umana intelligenza”- pertanto, per me, almeno per ora è ancora così, tutte le filosofie – incluse “le filosofie razionaliste ed illuministe valgono entro i limiti delle proprie anguste premesse, oltre forzano i propri limiti incontrando il fallimento” –
Lidia
Ps : colgo l’occasione per ringraziarla ancora per Max Stirner – L’unico e la sua proprietà – l’ho letto il mese scorso.
Volevo dire – “ lei ha esposto il suo pensiero in maniera oltremodo elegante e con grande onestà intellettuale”
Per me il concetto di misura costituisce sempre il cuore di ogni questione, sia inteso nel senso di risultato, sia inteso nel senso di azione (l’atto del misurare).
Ho spesso l’impressione che la misura intesa come risultato venga considerata più importante dell’atto del misurare.
Quando si sono scoperti gli effetti curativi degli antibiotici, per esempio, ci si è lasciati irretire dall’idea che finalmente si potevano salvare così tante vite. Oggi stiamo vivendo la crisi planetaria dell’uso degli antibiotici e stiamo decidendo scelte radicalmente opposte per cui ci sono medici che non ti prescrivono un antibiotico neanche sotto tortura (poco importa se appartieni alla generazione che è stata “cresciuta”a pane e antibiotici ed adesso hai un sistema immunitario poco affidabile …).
Per carità, sono d’accordo sulla limitazione degli antibiotici, è ovvio, ma quello che mi preme puntualizzare è la scelta di privilegiare il risultato rispetto al processo di acquisizione dello stesso.
Se ho capito bene, le religioni vengono considerate utili al solo fine di “gestire” l’ansia del futuro, di cui, noi umani, a differenza degli animali (forse), siamo costantemente consapevoli.
Forse io rappresento un caso isolato, ma lo sviluppo spirituale è per me indispensabile a vivere il presente piuttosto che a cercare di controllare il futuro.
Considerata in tal senso, la spiritualità (che si può ben trovare in tutte le religioni o anche senza alcuna religione, a mio parere) costituisce proprio la capacità di realizzare la giusta misura senza ricorrere a metri di misura razionali, univoci ed immutabili che, nel tempo, si rivelano fallimentari.
Si è fatto cenno alla fecondazione artificiale … perché non la chiamiamo con il suo vero nome? Ossia espressione maniacale della massima manifestazione d’egoismo umano. I figli DEVONO rappresentare un dono (possibilmente, però, senza le degenerazioni farisaiche che lo interpretavano come premio o punizione divina) e se proprio intendo AVERE un figlio per mio soddisfacimento personale, allora ne adotto uno (insomma, siamo onesti, se non riesco a pensare ad un figlio se non come ad un possesso, allora perché non comprarne uno già bello e pronto?).
Perché non consideriamo necessario investire nella gestione e nel controllo delle organizzazioni preposte all’adozione e siamo invece così tranquilli ad investire quantità stratosferiche di denaro per la fecondazione artificiale?
E’ evidente che la misura, intesa come risultato, dovrebbe farmi optare per la scelta contraria: investendo nelle adozioni diminuirebbe il numero di bambini abbandonati alla mercè di terroristi, criminali, pedofili e quant’altro, e ci sarebbe un obiettivo miglioramento delle condizioni di vita rispetto a più di un parametro.
Allora, cos’è che mi impedisce di raggiungere questo concetto di giusta misura? A mio parere ciò dipende dal fatto di non volersi considerare esseri spirituali ma solo animali: nel caso specifico, si considera prioritario il diritto alla procreazione di sangue. Sapete dirmi per quale ragione? Tanto più se considero che la sessualità umana, a differenza della maggior parte di quella animale, è scollegata dalla determinazione genetica.
Vediamo se riesco ad esprimermi meglio. Se do per scontato che l’atto del misurare non è interessante quanto lo è il risultato della misura, non svilupperò mai, paradossalmente, la capacità di ottenere la giusta misura. Quali sono i criteri da rispettare (guardare a monte) per avviare il processo di misurazione?
Nella mia infinitesima esperienza di vita ho scoperto che la spiritualità (non la razionalità che ne costituisce solo una parte) è l’unica risposta che a tutt’oggi, dopo MILLENNI di storia, insegna all’umano come arrivare alla giusta misura.
Prendiamo ad esempio la malaria. A tutt’oggi esiste un solo farmaco in grado di guarire da tale malattia, ma si stanno già registrando casi di resistenza. Ebbene, in quei paesi dove gli umani hanno indirizzato la ricerca tecnologica secondo criteri spirituali, si sono accorti che l’intensità della virulenza di una malattia dipende dall’estensione della stessa. Continuando, quindi, il processo di decisione, hanno utilizzato le attuali tecnologie per costruire edifici a prova di zanzara, e, nel corso dei decenni, i casi di malaria sono diminuiti, riducendo, conseguentemente, anche la virulenza della malattia.
Ugualmente, relativamente ai casi di contaminazione delle acque potabili nei casi di colera: le scelte di investire in tecnologie adatte riduce drasticamente i rischi di epidemia riducendo il grado di virulenza.
Allora, cosa significa essere spirituali? Significa pregare un’idea magica di Dio che mi deve salvare a me perché sono tanto buono e bravo e lo prego tanto, oppure significa che mi devo adoperare per usare TUTTI i mezzi che ho a disposizione per intraprendere un processo di misurazione che risponda alle mie esigenze?
Allora, azzardando, come sempre, dei riferimenti cristiani … mi è stato insegnato che a causa del suo rifiuto della dipendenza spirituale, l’umano viene ridotto in condizioni di mortalità, non per punirlo, ma perché senza spiritualità la vita umana si riduce a mera razionalità, ossia un’astrazione sterile del dualismo bene/male, diventando insostenibile sia per l’umano che per il resto del creato. Altrove ho paragonato la condizione di dipendenza della vita su questo pianeta all’immagine di un cavallo. Chi accetta la condizione di dipendenza (che è spirituale proprio perché originaria ed insopprimibile) è in grado di salire in sella al cavallo, chi la rifiuta si troverà a caricarsi il cavallo sulle spalle.
Ancora una volta, non è la tecnica a creare i problemi, ma l’incapacità dell’umano ad essere tale …. cioè, semplicemente divino.
Nel messaggio (ovviamente non mio!) cui sto rispondendo, la dottrina del giusto mezzo, che è parte della semplice saggezza orientale e della saggezza della filosofia occidentale, è confusa con la necessità delle misurazioni in alcuni tipi di perizie.
MAURO PASTORE
In verità il linguaggio col quale io affronto queste materie è duro, ostico, perciò l’attribuzione di eleganza che lei mi inventa mette in difficoltà me e i miei veri lettori. In secondo luogo i miei testi non sono fatti per essere cannibalizzati, non vanno fatti a pezzi e non vanno inclusi entro altre premesse testuali, ancora peggio se offensive, cioè lesive della dignità del pensiero autentico. Io non scrivo semplicemente secondo regole grammaticali e norme sintattiche, uso liberamente regole grammaticali e norme sintattiche nelle mie scritture, per questo non voglio neppure che gli incapaci possano fingersi altrimenti. Se lei non avesse espresso il suo reale pensiero, o se vi fosse stata una espressione fuorviante del suo pensiero, non si senta chiamata in causa per nulla; ma i testi da lei inseriti qui su non sono niente, in ogni caso. Purtroppo il suo linguaggio ricorda sinistramente la omicida superficialità con la quale stravaganti carnefici, spesso con la complicità delle stesse vittime, deformano i corpi, fino a impedire la funzione di allattamento o all’inserimento di rischiosi e dannosi materiali nelle zone interne del fisico, giungendo fino all’asportazione dei genitali, sostituiti con falsi organi non in grado di dare né piacere né fertilità né figliolanze, anzi impedendone le possibilità proprio con l’asportazione. Se lei ha scritto quasi a casaccio e non vi era costretta, esistono per lei le leggi di tutti i veri Stati che puniscono le irresponsabilità che creano o potrebbero creare guai ad altri. Si rischia per portare un ferito in ospedale, anche con un veicolo privato, ma altro è la volontaria ricerca di unire rischi e pericoli, per giunta danneggiando gli altri. Non posso accettare i modi coi quali lei definisce e cita parti dei miei discorsi. Trovi il modo di far cancellare sùbito le sue risposte, se può, e veda cos’altro le leggi le impongono, se le impongono qualcosa.
MAURO PASTORE
A scanso di sia pure improbabili equivoci, preciso che tale messaggio fu scritto in risposta a tale “lidia”, di cui più sopra su questa pagina un suo messaggio. Non acclusi il testo allo stesso messaggio della stessa “lidia”, per mantenere il dovuto distacco.
MAURO PASTORE
Aggiungo che io non saprei dirle, “lidia”, se lei potesse fare qualcosa di buono del testo firmato Max Stirner. Non scrivo qui in un rapporto fiduciario, e quanto scrivo pubblicamente qui, non è un epistolario privato, quindi non sono un suo consigliere personale, se certi pensieri le sono risultati di consiglio e non ha saputo manifestarlo, o se le saranno di consiglio, il consigliere comunque non c’è.
MAURO PASTORE
Anche se ovvio, voglio precisare che a scanso di sia pure improbabili equivoci, tale messaggio fu scritto in risposta a tale “lidia”, di cui più sopra su questa pagina un suo messaggio. Non acclusi il testo allo stesso messaggio della stessa “lidia”, per mantenere il dovuto distacco.
MAURO PASTORE
Invio di nuovo due risposte, non saprei dire per quale motivo non pubblicate prima, se a causa di un ritardo nella valutazione ed eventuale censura, o per altro. Mi rendo conto che a volte le espressioni possono essere solo ambigue, o involontariamente differenti dal reale pensiero. Tuttavia ci si renda conto delle necessità di chi deve tutelare il proprio pensiero e gli scopi di un intervento scritto. Purtroppo non si può accettare senza fare niente, che discorsi tanto seri e necessari siano trattati con la leggerezza usata per le sfilate di moda, né tantomeno che si usino modalità di pensiero non proprie gettando confusione e discredito sopra scritti fatti anche per favorire la vita e la saggezza, come questi miei cui ha risposto tale “lidia”. Dunque qui di sèguito accludo due mie risposte inviate ma non apparse, non le indirizzo direttamente a tale “lidia”. Tali risposte ripetono in parte quanto ho detto già con queste, ma solo in parte:
In verità il linguaggio col quale io affronto queste materie è duro, ostico, perciò l’attribuzione di eleganza che lei mi inventa mette in difficoltà me e i miei veri lettori. In secondo luogo i miei testi non sono fatti per essere cannibalizzati, non vanno fatti a pezzi e non vanno inclusi entro altre premesse testuali, ancora peggio se offensive, cioè lesive della dignità del pensiero autentico. Io non scrivo semplicemente secondo regole grammaticali e norme sintattiche, uso liberamente regole grammaticali e norme sintattiche nelle mie scritture, per questo non voglio neppure che gli incapaci possano fingersi altrimenti. Se lei non avesse espresso il suo reale pensiero, o se vi fosse stata una espressione fuorviante del suo pensiero, non si senta chiamata in causa per nulla; ma i testi da lei inseriti qui su non sono niente, in ogni caso. Purtroppo il suo linguaggio ricorda sinistramente la omicida superficialità con la quale stravaganti carnefici, spesso con la complicità delle stesse vittime, deformano i corpi, fino a impedire la funzione di allattamento o all’inserimento di rischiosi e dannosi materiali nelle zone interne del fisico, giungendo fino all’asportazione dei genitali, sostituiti con falsi organi non in grado di dare né piacere né fertilità né figliolanze, anzi impedendone le possibilità proprio con l’asportazione. Se lei ha scritto quasi a casaccio e non vi era costretta, esistono per lei le leggi di tutti i veri Stati che puniscono le irresponsabilità che creano o potrebbero creare guai ad altri. Si rischia per portare un ferito in ospedale, anche con un veicolo privato, ma altro è la volontaria ricerca di unire rischi e pericoli, per giunta danneggiando gli altri. Non posso accettare i modi coi quali lei definisce e cita parti dei miei discorsi. Trovi il modo di far cancellare sùbito le sue risposte, se può, e veda cos’altro le leggi le impongono, se le impongono qualcosa.
Aggiungo che io non saprei dirle, “lidia”, se lei potesse fare qualcosa di buono del testo firmato Max Stirner. Non scrivo qui in un rapporto fiduciario, e quanto scrivo pubblicamente qui, non è un epistolario privato, quindi non sono un suo consigliere personale, se certi pensieri le sono risultati di consiglio e non ha saputo manifestarlo, o se le saranno di consiglio, il consigliere comunque non c’è.
MAURO PASTORE
Ritengo potrebbe essere utile spiegare brevemente, ridimensionare la questione e cercare di mantenere le opportune distanze: ho pensato che ci fosse un riferimento sottinteso a precedenti post – ho compreso dopo aver letto queste ultime puntualizzazioni del Signor Pastore che mi sono sbagliata; mi sono sbagliata in merito al riferimento, che non c’era e anche in merito allo stile del Signor Pastore, come da lui sottolineato.
Infine, non intendevo ledere la dignità del pensiero da lui espresso, se in qualche modo gli ho recato offesa l’ho fatto in modo non intenzionale, mi scuserà.
Non mi attribuisca future intenzioni di scuse. Non lo troverei corretto neppure se ci fossero veramente le scuse.
MAURO PASTORE
Non è da tanto che la seguo, Prof. Galimberti, la mia vita (ho 60 anni) non mi ha concesso molte possibilità di riflessione, per così dire, profonda, come invece mi ritrovo finalmente ora a poter fare e liberare, grazie alle sue esposizioni, alla sua cultura talmente evoluta da sembrare addirittura… semplice.
Ascoltando le sue conferenze ho avuto la gradevole sensazione di aver trovato un “traduttore” (mi conceda il termine) su quanto nella vita si tenta di esprimere; un po’ come lei stesso ha definito l’operato d’un filosofo che sa di trovare nella mente della gente i fondamenti della verità, come antiche statue in fondo al mare ricoperte di incrostazioni, mi sono ritrovato nel cervello una bellissima scultura del più raffinato canone classico dell’antica Grecia. Non mi fraintenda, non è presunzione, anche perché non saprei neanche esprimermi con adeguata chiarezza, per descriverne la meraviglia.
Mi resta solamente la possibilità di ringraziarla per avermi dato questa personalissima possibilità di discernimento, o meglio ancora, di consapevolezza.
La prima conferenza “La fatica di vivere nel tempo della metamorfosi” al congresso ANDAF di ottobre ’14, mi ha lasciato esattamente questo: la consapevolezza. Sarebbe facile dire “lo sapevo” su tutte quelle cose che ha toccato nella sua chiarissima esposizione, a partire dalla perdita della centralità dell’Uomo a favore di Economia e in futuro della Tecnica.
Mi è andato il pensiero immediatamente a Bob Kennedy e al suo famoso discorso sul P.I.L. nel 1968, tre mesi prima di essere ucciso… Non disse altro che questo, non fece che sottolineare la mostruosità dell’Economia e Finanza mondiale di fronte alla vicenda umana. Lo disse da candidato alle presidenziali. Troppo pericoloso per questo.
Ho seguito altre sue conferenze, quelle sull’Amore e la follia dal testo di Platone e mi ci sono ritrovato con tutte le scarpe, anche perché sono un artista, dipingo, scrivo poesie e non solo. E amo. E devo dire che se non si lascia uscire questa mente dalle pastoie della ragione, per l’uomo, non c’è futuro.
Il nemico è il “Mercato”. Sarà follia pensare di combatterlo? Beh… sono abbastanza folle da poter dire che sono già per strada.
Grazie Professore, semplicemente grazie.