Ci sono parole che sono sulla bocca di tutti e che forse, proprio per questo, si ha l’impressione che basta pronunciarle per ritenere che siano risolti i problemi che esse comportano. Due sono: globalizzazione e integrazione. “Globalizzazione” significa che il mercato non è più circoscritto ai confini nazionali o continentali, ma è diventato esteso quanto il globo. E come le merci possono circolare in ogni parte della terra, così i produttori di merci, i lavoratori, se ritenuti necessari, possono essere chiamati da ogni angolo della terra. A questo punto entra in gioco la seconda parola “integrazione”. A questi immigrati si chiede, pur nel rispetto delle loro credenze, di adeguarsi ai nostri usi e costumi, quindi di rispettare le leggi, pagare le tasse, imparare la lingua, comportarsi come è in uso nella nostra cultura. Alcuni ci riescono, altri meno, ma per i nati in Italia, per quelli che si è soliti chiamare di “seconda generazione” l’integrazione sarebbe un evento del tutto naturale, se tutti fossero messi in grado di frequentare quella palestra di convivenza e di educazione che si chiama scuola. E se la scuola, soprattutto quella elementare, si attrezzasse con insegnanti e strumenti didattici adeguati alla condizione di chi parla a malapena la nostra lingua e nella nostra lingua non sa scrivere. Per limitarci alla Lombardia, oggi gli studenti stranieri nelle nostre scuole sono il 10 per cento per un totale di 108 mila ragazzi che appartengono a ben 169 etnie. Gli insegnanti che svolgono la funzione di mediatori culturali sono 230 in Lombardia di cui 94 a Milano. Quindi un solo mediatore per 469 studenti. Ci sono poi le cosiddette classi-ghetto con più di uno straniero su quattro ragazzi. Di questi una gran parte sono romeni, in aumento a Milano rispetto allo scorso anno di 1300 unità. Come si vede la pressione straniera è forte così come la dispersione scolastica. Siccome la globalizzazione è un fatto epocale irreversibile e l’integrazione richiesta passa soprattutto attraverso l’educazione scolastica, se vogliamo dare concretezza a queste due parole bisogna potenziare la scolarizzazione degli immigrati, perché solo così avremo in futuro dei cittadini italiani, sia pure di diversa provenienza, e non dei lavavetri, dei mendicanti, degli spacciatori, dei delinquenti e in tutti i casi degli emarginati che, non integrati, restano fuori dalla nostra storia, e noi, a nostra volta, restiamo fuori dalla storia del mondo, pagando naturalmente il prezzo di questa esclusione. Giusto per fare un esempio. Dopo l’ultimo sgombero del campo rom in via San Dionigi, assistito dalla Casa della carità, che garantiva la frequenza scolastica di 25 bambini, oggi non si sa più dove questi bambini sono, si sa solo che a scuola non ci sono più. Poi facciamo pure tutte le nostre battaglie contro i lavavetri che importunano gli automobilisti ai semafori, o contro quegli immigrati che, con i loro bambini, impietosiscono i passeggeri della metropolitana, ma non invochiamo più la loro integrazione se poi, da parte nostra non mettiamo in atto alcuna iniziativa per realizzarla. In questa nostra trascuratezza una cosa non dobbiamo dimenticare: che non elimineremo mai la delinquenza con la tolleranza zero, ma solo con una efficace e ininterrotta opera di integrazione che ha nella scuola il suo primo motore.

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